Ieri sera in un momento di relax nostalgico mi sono ritornati in mente un sacco di personaggi di quartiere, per lo più commercianti, che erano molto presenti nella mia vita di ragazzo.Sarà la lontananza.
Partendo dalla Chiesa dell’Angelo e scendendo giù per il Viale degli Atlantici è una carrellata quasi fiabesca di elementi fra il sacro e il profano.
Ricordo la Chiesa dei Frati della Missione, dove mia madre si recava a messa la mattina presto. Scendendo, dopo quel grande negozio di materiali per ufficio o addirittura proprio in quei locali, c’era una sordida sala giochi con un juke box gestita da un vecchio con il basco e un puzzolente sigaro toscano.
Era il 1975. Ancora più giù, di fronte alla Villa Comunale dove sostava il “sementaro” (il cui figlio penso abbia poi intrapreso un’attività legata agli animali domestici), c’era il bar Vessichelli. Anche lì in quegli anni spiccava un juke box, ma soprattutto i loro ghiotti e oleosi calzonetti.
Ancora più giù, già dirimpetto a Piazza Castello, c’erano ben due bar, bui e vecchi, dei quali l’ultimo, nei cui locali poi si insediò un rivenditore di merci per militari, era gestito nel 1974 da una vecchietta dalla quale compravo le caramelle Charms, i leccalecca e i Supertele, quei palloni che andavano a vento.
Proseguendo oltre Nazzareno che vendeva scarpe…anzi no…prima di quello, scendendo giù per quella scarpata sterrata alle spalle del cinema, dietro l’angolo, c’era un ciabattino, in po’ orbo. Sembrava un artigiano del secolo prima e la sua bottega era buia e sporca di lucido, tutta arnesi, stracci e scarpe immersi nell’oscurità e nell’odore. Aveva una cicca appiccicata alle labbra.
Ritornando a Piazza Castello si passava davanti al tabaccaio Perfetto dove conoscevi entrambi i fratelli. Non so perché ma io li associavo ai fratelli Giuffré. Voltato l’angolo, dove c’era il bar Maxim’s, ancora oltre c’era un barbiere in livrea amaranto, come quelle degli uscieri d’albergo. Si chiamava Meoli. Col figlio staccavo i giunchi che circondavano il Jolly Hotel e andavamo al torrente di Breccella a giocare ai Ragazzi della Via Paal, oppure dietro alle scuole che a quei tempi erano in costruzione, a fumare quelle favolose marche di sigarette che ora non esistono più. Spaccavamo tegole e ci lasciavamo pendere dalle strutture dei canestri di basket che erano lì dietro le scuole.
Negli angoli dei muri e negli anfratti a quei tempi le coppiette si nascondevano per fare l’amore. Immagino in piedi. A fianco si estendeva un grande terreno fatto di sentieri saliscendi dove i ragazzi praticavano il motocross coi “Caballeros” e altre marche che non ricordo. Era una meravigliosa esperienza di periferia nonostante il castello e la villa fossero a 400 metri in linea d’aria.
Ritornando con la mente al castello e imboccando la stradina che scendeva veloce alle spalle della prefettura, ricordo un negozio di alimentari proprietà di un uomo che viveva su una sedia a rotelle con una calda coperta colorata sulle gambe. Non ricordo il suo nome.
Più giù, passata la Chiesa dell’Annunziata e quel sinistro “Albergo del sole”, c’era un localino, sempre buio e ammuffito, dove una vecchietta nei primi anni settanta vendeva giocattolini e dolciumi. E’ lì che comprai le palle che rompevano i nervi a quei tempi.
Risalendo per la strada che conduceva al tribunale, si passava davanti ad un fornaio (il cui soprannome non voglio ricordare) di fronte al quale c’era l’ingresso di un orfanotrofio e il negozio dei signori Gramazio, che dormivano e vendevano la loro merce lì dentro, fra un odore di piscio di gatto e di alimentari.
Attraverso quei vicoli si arrivava così ad una di quelle discese che collegavano il corso alla via della scuola Magistrale. Lì aveva studio il nostro medico di famiglia, il dottore Quici. Guadagnato il corso principale e risalendo per ritornare alla villa, accanto alla Piazza Federico Torre, dove c’era un benzinaio e una strillona chiamata “Cenza”, sorgeva la bottega di alimentari del Signor Rizzi, un uomo dalla faccia teutonica e un’affettatrice di colore rosso.
Dall’altra parte della strada, su per il vicolo che conduceva a Piazza Piano di Corte, c’era lo stanzino dove la signora Italia vendeva la verdura. Più avanti il mio asilo, quello delle suore, con il mio cestino celeste contenente le vaschette di nutella e la cotognata.
Inoltrandomi per quei vicoli sbucavo poi al Collegio de La Salle dove tutta la mia vita scolare e sociale era partita, fra indimenticabili lezioni di grammatica sulla “Nuova guida al comporre”, canti dell’Antoniano, i Freemen e i Fratelli de La Salle Alessandro, Leonardo e Nicola.
Uscito così da quei vicoli della mia memoria di ragazzo, ritornavo a Piazza Castello e quindi a casa, al terzo piano, sei rampe di scale, di nuovo a quella magnifica finestra dalla quale mi pareva di dominare il mondo.
post di Lino Ascione del 21 febbraio 2017